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Pregiudizio di genere

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Pregiudizio socioeconomico

Pregiudizio di genere

  La nostra identità di genere si forma così precocemente nella vita, che da adulti la consideriamo per lo più scontata. Ma il genere non è soltanto qualcosa che esiste: tutti noi costruiamo il genere nelle interazioni sociali con gli altri. In generale i sociologi usano il termine sesso per riferirsi alle differenze anatomiche e fisiologiche che caratterizzano i corpi maschili e femminili.Il genere invece concerne le differenze psicologiche, culturali e sociali tra maschi e femmine.Il genere è collegato alle nozioni socialmente costruite di maschilità e femminilità. Non è necessario un prodotto diretto del sesso biologico. La distinzione tra sesso e genere è fondamentale, poiché molte differenze tra uomini e donne non sono di origine biologica. Alcuni autori ritengono che determinati aspetti della biologia umana (cromosomi e altri fattori genetici) comportino differenze di comportamento tra uomini e donne. Tali differenze possono essere individuate in una forma o nell’altra in tutte le culture. Le teorie della differenza naturale si basano spesso sul comportamento animale che è variabile nel tempo e nello spazio. Inoltre, il fatto che certe caratteristiche siano universali non significa che debbano essere di origine biologica. Le teorie per cui gli esseri umani si conformerebbero a una sorta di predisposizione innata trascurano il ruolo decisivo dell’interazione sociale nella definizione del comportamento umano.

  Socializzazione di genere Ossia apprendimento dei ruoli di genere attraverso agenti sociali come la famiglia, la scuola e imedia. Questo tipo di approccio distingue tra sesso biologico e genere sociale: un bambino nascecol primo e sviluppa il secondo. Attraverso il contatto con diversi agenti della socializzazione i bambini interiorizzano gradualmente le norme e le aspettative sociali corrispondenti al proprio sesso. Le differenze digenere non sono biologicamente determinate, ma sono un prodotto culturale. In questa prospettiva,le disuguaglianze di genere derivano dal fatto che uomini e donne vengano socializzati a ruoli differenti. Nel processo di socializzazione bambini e bambine sono guidati da sanzioni positive e negative, che agiscono per ricompensare a reprimere determinati comportamenti.Molti autori sostengono che la socializzazione di genere non sia un processo intrinsecamente armonioso. In realtà, diversi agenti coinvolti (famiglia, scuola,coetanei), possono essere in contrasto l’uno con l’altro. Inoltre le teorie della socializzazione ignorano la capacità degli individui di respingere o modificare le aspettative sociali connesse ai ruoli sessuali.

  Due delle più importanti teorie che spiegano la formazione dell’identità di genere prendono spunto dai rapporti emotivi che intercorrono tra i bambini e coloro che se ne prendono cura. Secondo queste due teorie, le differenze di genere si formano “inconsciamente” durante i primi anni di vita, anziché risultare da una predisposizione biologica. La teoria di Freud Secondo questa teoria, l’apprendimento delle differenze di genere da parte dei bambini è incentrato sulla presenza o l’assenza del pene. Freud si preoccupa di specificare che non si tratta solo di differenze anatomiche: la presenza e assenza del pene esprime simbolicamente la maschilità e la femminilità. La formazione delle identità di genere ha inizio nella fase edipica, 4-5 anni. In questa fase sono fondamentali per i bambini i rapporti con i genitori. Il bambino si sente minacciato dal fatto che il padre comincia a esigere da lui disciplina e autonomia, sottraendolo alle cure della madre. In parte consciamente, ma per lo più inconsciamente, il bambino vede il padre come rivale nella lotta per le attenzioni della madre, fino a sviluppare la paura della castrazione (il bambino accetta la superiorità del padre). Le bambine soffrirebbero per l’invidia del pene, in quanto ne sono prive (la bambina svaluta la madre). Con al conclusione della fase edipica, il bambino ha imparato a reprimere le proprie pulsioni erotiche. Nel periodo di latenza, dai 5 anni alla pubertà, l’attività sessuale tende ad essere sospesa fino a quando le trasformazioni biologiche della pubertà riattivano in modo diretto i desideri erotici. Sono molto importanti i rapporti interni al gruppo dei pari omogeneo per sesso. La teoria di Nancy Chodorow Ella concorda con altri studiosi di psicoanalisi, smentendo Freud, che la formazione dell’identità di genere è un’esperienza molto precoce; inoltre attribuisce molta più importanza alla madre che al padre. I bambini tendono a instaurare un rapporto di coinvolgimento emotivo con la madre, che rappresenta l’influenza dominante nelle fasi iniziali della vita. La percezione di essere maschio deriva dunque dall’attaccamento del bambino alla madre. Per poter acquisire un senso di sé separato, a un certo punto tale attaccamento deve essere spezzato. La Chodorow sostiene che questa rottura avviene in modo diverso nei bambini e nelle bambine. Non essendoci una separazione netta dalla madre, la bambina, e più tardi la donna adulta, ha un senso di sé meno separato dagli altri. La sua identità ha maggiori probabilità di rimanere fusa con quella di un altro. I bambini maschi acquistano il senso di sé in seguito a un rifiuto più radicale della vicinanza della madre, ricavando la propria comprensione della maschilità da ciò che non è femminile. Essi devono imparare a non essere “effeminati” o “cocchi di mamma”.Il loro approccio alla vita è più attivo e incentrato sulla prestazione; hanno però represso la capacità di capire i propri sentimenti e quelli altrui. E’ la maschilità a essere definita come perdita, ovvero privazione dell’attaccamento intimo con la madre. Le differenze di genere sono raramente neutrali e in quasi tutte le società comportano significative disuguaglianze sociali. Il genere è un fattore cruciale nel determinare le chance di vita che si offrono a individui e gruppi, e influenza in maniera sostanziale i ruoli che essi svolgono all’interno delle istituzioni sociali, dalla famiglia allo stato. Benché i ruoli di uomini e donne siano variabili da cultura a cultura, non esiste alcuna società conosciuta in cui le donne abbiano maggiore potere degli uomini. I ruoli maschili sono, in generale, più reputati e premiati di quelli femminili. Questa divisione sessuale del lavoro ha fatto sì che uomini e donne raggiungessero posizioni ineguali in termini di potere, prestigio e ricchezza. L’approccio funzionalista considera la società un sistema di parti reciprocamente collegate che, in condizioni di equilibrio, cooperano armoniosamente per produrre coesione sociale. L’applicazione della prospettiva funzionalista si traduce nel tentativo di dimostrare che le differenze di genere contribuiscono alla stabilità e all’integrazione sociale

Pregiudizio religioso culturale​

  le procedure e le prassi possono avere nell’esacerbare e/o ridurre le esperienze di pregiudizi e discriminazione nelle comunità locali. Un punto di partenza importante per combattere pregiudizi e discriminazioni nei confronti di gruppi particolari è capire la portata e la natura di tali problemi per come li vivono loro stessi. I partecipanti hanno condiviso un’ampia serie di esempi di pregiudizi e discriminazioni nei confronti delle minoranze religiose nei loro stessi contesti. Gli esempi coprivano tutto l’arco della vita, dai bambini (p.es. le politiche che discriminano il modo di vestire ed i pasti adeguati nelle scuole) fino alla morte (comprese le disposizioni per il funerale/sepoltura).

Coprivano anche un’ampia gamma di spazi, compresi i reati dell’odio nelle strade (tra cui abuso verbale,violenza, eliminazione forzata degli hijabs, ecc.), discriminazioni sul lavoro e nell’istruzione, ecc. Sono emerse anche questioni di discriminazione istituzionale,come discusso in altre sezioni qui sotto. Tuttavia, capire appieno a portata di questi temi può essere in sé difficile, se non altro perché i dati sistematici su queste esperienze sono spesso limitati. Le ricerche suggeriscono che un problema significativo risiede nel fatto che le discriminazioni ed i crimini legati all’odio contro le minoranze religiose non vengano denunciati totalmente, non per ultimo per via dell’idea che tanto non succederebbe o cambierebbe nulla. Per esempio, il vasto studio MIDAS europeo ha indicato che il 79% delle risposte date da musulmani, particolarmente giovani, non riferiva leesperienze di discriminazione. Dermana Šeta, consigliera ODIHR per la lotta contro l’intolleranza nei confronti dei musulmani, ha sottolineato che ciò significa che migliaia di casi di discriminazione e reati razzisti rimangono invisibili, e non vengono quindi registrati in denunce ufficiali e nei meccanismi di raccolta dati della giustizia criminale.

È meno probabile che le persone senza cittadinanza e coloro che vivono nel paese per brevissimi periodi denuncino discriminazioni. Per quanto riguarda le ragioni delle mancate denunce, secondo lo stesso studio, il 59% dei musulmani che hanno risposto crede che ‘non succederebbe o cambierebbe niente con la denuncia’ e il 38% dice che ‘succede sempre’ e quindi non fanno lo sforzo di denunciare incidenti di questo tipo.

Di conseguenza, un’azione chiave iniziale è spesso quella di sostenere una maggiore e più approfondita raccolta dati (da parte di entiinternazionali, enti governati-vi/locali, e/o organizzazioni non governative) per contribuire ad identificare problemi sistemici e aree di priorità per risposte politiche e pratiche. Prevede la costruzione di rapporti con vari gruppi di minoranze religiose per cercare di stabilire un quadro più preciso della natura e dell’impatto di pregiudizi e discriminazioni nei loro confronti, e dei problemi da affrontare per migliorare le denunce e le risposte a tali problemi.

Prevede anche il riconoscimento del potenziale di discriminazione di varia natura e tra vari gruppi religiosi o laici e le potenziali in-terazioni tra le varie forme di discriminazione, basate su religione,genere, sessualità, ecc. Tuttavia, nel far questo è importante essere sensibili al modo in cui si realizza per esempio, almeno un paese ha evitato di raccogliere dati ufficiali sulla religione a causa di abusi storici di questi dati utilizzati per perseguitare minoranze religiose (particolarmente gli Ebrei) durante la Seconda Guerra mondiale. È emerso che un fattore.

Pregiudizio d'immagine

La suddivisione della popolazione in tre categorie d’età i giovani, gli adulti e gli anziani costituisce un criterio ampiamente utilizzato nella nostra società: è su questa base che si stabilisce chi deve studiare, lavorare, votare e così via. Questa rigida tripartizione favorisce un particolare tipo di pregiudizio, l’ageismo, ossia gli stereotipi, gli atteggiamenti e i comportamenti intergenerazionali che nuocciono al gruppo o alla persona che ne è il target. Si tratta di un pregiudizio del tutto particolare perché ogni persona ne può diventare prima o poi l’oggetto; tuttavia è stato molto sottostimato dalla ricerca e le sue conseguenze sono tuttora scarsamente considerate. Fu lo psichiatra Robert Butler a introdurre il termine ageismo nel lessico scientifico. In un lavoro pubblicato negli anni Sessanta del secolo scorso, Butler definì l’ageismo come il “pregiudizio di un gruppo di età nei confronti di altri gruppi d’età” (1969, p. 243). Nonostante questa definizione allargata, la collocazione dell’articolo sulla rivista The Gerontologist e i successivi sviluppi del tema da parte dello stesso Butler, vinse il premio Pulitzer con un libro sulla condizione degli anziani negli Stati Uniti, hanno contribuito a focalizzare l’interesse soprattutto sugli atteggiamenti negativi e la discriminazione nei confronti degli anziani e a trascurare l’altro gruppo particolarmente colpito, quello dei giovani. Sono soprattutto gli anziani e i giovani, infatti, i due gruppi d’età che l’ageismo danneggia maggiormente: essi sono bersagliati da pregiudizi, anche incrociati, poiché il loro status sociale è inferiore a quello degli adulti, hanno meno disponibilità economica, meno potere, meno considerazione (Garstka, Hummert, & Branscombe, 2005). L’adulto (in particolare l’adulto di sesso maschile) costituisce il prototipo dell’essere umano, ossia l’esemplare che ne rappresenta al meglio le caratteristiche, e rispetto al quale i giovani e gli anziani sono considerati incompleti, insufficienti, imperfetti (Mucchi Faina, 2013). I confini tra le fasce d’età sono tutti piuttosto fluttuanti: variano in relazione a diversi fattori quali, per esempio, il contesto (un atleta è ritenuto anziano già a 35 anni, un senatore è giovane a 40), la cultura (per i norvegesi si è giovani fino a 35 anni, per i greci f ino a 52), l’età di chi li stabilisce (coll’aumentare dell’età si tende a spostare in avanti l’inizio della vecchiaia; Abrams, Vauclair, & Swift, 2011). Per consuetudine, nella ricerca medica, statistica e psicologica, si considerano giovani le persone al di sotto dei trentacinque anni (almeno in Italia) e anziane quelle che hanno superato i sessantacinque. North e Fiske (2013a) hanno fatto notare come sia inappropriato considerare gli anziani come un unico gruppo indifferenziato e hanno insistito sulla necessità di distinguere i giovani-anziani (65-75 anni) dagli anziani-anziani (oltre i 75 anni). Secondo questi autori si tratta di una distinzione necessaria non solo perché i due gruppi hanno bisogni ed esigenze diverse, ma anche perché l’ageismo nei loro confronti può manifestarsi in luoghi e modi assai differenti. Questa bipartizione, tuttavia, non è stata per il momento adottata nella ricerca psicosociale. Anche alle differenze di genere la ricerca f ino a ora ha dedicato scarsa attenzione, sebbene il concetto di doppio standard in riferimento al diverso peso e significato che l’età e l’invecchiamento hanno per donne e uomini sia stato da molto tempo rilevato (Sontag, 1999). Certe persone, ma anche gruppi e società nel loro intero, a volte hanno difficoltà a riconoscere altri individui che considerano ‘diversi’ come esseri umani con pari diritti. Le ragioni del rifiuto e della svalutazione possono essere paure individuali o collettive, ma anche interessi di potere economico o politico. Se l’’alterità’ è definita dal colore della pelle, dall’origine o dal background culturale, si parla di discriminazione razziale1. Una definizione giuridica internazionale di razzismo non esiste ma gli standard in materia di diritti umani internazionalmente riconosciuti vietano la discriminazione in base alla ‘razza’ o all’etnia. Il razzismo è un affronto alla nozione stessa di diritti umani universali. È la negazione di uno dei principi fondanti della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, ossia che tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Il razzismo nega sistematicamente ad alcune persone il pieno godimento dei loro diritti umani, con il pretesto del colore della pelle, dell’appartenenza razziale o etnica, dell’origine sociale (compresa la casta) o nazionale. Questo rappresenta una minaccia a tutti i diritti umani: civili e politici ma anche economici, sociali o culturali. Il diritto di vivere liberi dalla discriminazione razziale è centrale nel diritto internazionale in materia di diritti umani. È un principio che compare in quasi tutti i principali strumenti sui diritti umani, oltre che nella Carta delle Nazioni Unite. Infatti, uno degli scopi dichiarati dell’ONU è “realizzare la cooperazione internazionale… per promuovere e incoraggiare il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione “. Nonostante gli sforzi dell’ONU e delle organizzazioni di tutto il mondo impegnate nella lotta al razzismo, e nonostante le buone intenzioni proclamate in innumerevoli costituzioni e altri testi giuridicamente vincolanti la discriminazione razziale persiste in quasi tutte le società. Nella sua forma classica, il razzismo presuppone che l’umanità possa essere divisa in ‘razze’ biologicamente definite, con caratteristiche geneticamente determinate che le distinguono le une dalle altre. Storicamente, sulla base di queste presunte differenze è stata stabilita una gerarchia di razze ‘superiori’ e ‘inferiori’, alle quali vengono concessi o negati i relativi privilegi. Il razzismo è stato utilizzato in passato anche per giustificare il colonialismo e la schiavitù. Il concetto stesso di razza non ha alcuna base scientifica. Oggi è visto come il nucleo di un concetto ideologico problematico. Esteso alle caratteristiche attribuite a determinati gruppi di persone in base alla loro origine, etnia o nazionalità, il razzismo come ideologia si perpetua oggi, ad esempio quando si attribuiscono determinate caratteristiche o comportamenti a certi gruppi di persone, come “gli uomini balcanici sono macho”, “inigeriani sono spacciatori” o “i rom sono ladri”. Anche se questi pregiudizi non sempre si esprimono in atti razzisti concreti, ne portano i semi. Il razzismo è quindi un costrutto sociopolitico, solitamente costruito sulle presunte caratteristiche f isiche di un certo gruppo di persone. Crea comunità fittizie di discendenza e di origine, alle quali vengono attribuite caratteristiche che sono interpretate come difficili da cambiare. Le categorie razziali sono arbitrarie e spesso utilizzate per scopi politici. Il significato stesso di razza e le espressioni ideologiche del razzismo cambiano in epoche e Paesi diversi. Il razzismo è spesso utilizzato dai gruppi dominanti per giustificare il loro status privilegiato nella società. Il comportamento razzista a volte è anche un’espressione dell’alienazione e della disperazione delle persone escluse, comprese quelle che sono a loro volta vittime del razzismo. Attorno agli inizi degli anni 90’, le prime teorie sul pregiudizio assumevano e sottolineavano il suo carattere stabile nel tempo, rigido e non modificabile (Devine, 1989), mentre le teorie degli ultimi decenni, come quella di Lai, Hoffman & Nosek, (2013) ne affermano il carattere implicito ma più malleabile soprattutto se la persona viene sottoposta a diversi interventi come lo spostamento dell’attenzione o l’imagery mentale per ridurne l’impatto sui processi decisionali individuali. L’evidenza più forte di questo dato di stabilità nel tempo dei pregiudizi razziali è stata mostrata dallo studio sperimentale e longitudinale di Lai e colleghi (2016), il quale prendeva in esame nove interventi aventi come obiettivo la riduzione di pregiudizi razziali impliciti, su una popolazione di studenti universitari dispersi geograficamente in vari campus in tutto il territorio americano. Lo studio in questione includeva tre fasi: una di pretest in cui venivano misurati i punteggi relativi alla presenza e all’intensità di pregiudizi razziali impliciti, una di intervento e una di post intervento con successivo follow up a pochigiorni. I risultati ottenuti hanno evidenziato come tutti i nove interventi volti alla riduzione dei pregiudizi razziali negli studenti fossero efficaci solo nella fase immediatamente successiva all’intervento, mentre tendevano a non persistere nella fase di follow up. Tali conclusioni hanno indotto i ricercatori a ritenere che questi bias razziali fossero estremamente persistenti nel tempo e rigidi anche a fronte di dati empirici che al contrario ne verificassero la pertinenza e la coerenza, come se gli individui ostinatamente, anche dopo vari interventi che ne mettessero in dubbio la loro fondatezza, tornassero di nuovo in linea con il loro pensiero pregiudizievole. A tal proposito, il nuovo articolo di Vuletich e Payne, del dipartimento di psicologia e neuroscienze dell’University of North Carolina at Chapel Hill, suggerisce un’interpretazione alternativa ai risultati ottenuti da Lai e colleghi (2016). A loro parere infatti l’inefficacia degli interventi, riscontrata nei punteggi dei follow-up, anziché essere determinata dalla rigida consistenza e persistenza dei pregiudizi razziali a livello individuale, potrebbe essere in realtà frutto di una stabilità relativa al contesto sociale nel quale gli individui sono inseriti e non al pregiudizio in sé. Pertanto, la chiave di volta per la lettura e l’interpretazione del pregiudizio risiederebbe in tale accessibilità che varia sistematicamente in funzione della situazione in cui la persona si trova anziché essere una caratteristica individuale e stabile della persona; tale lettura è ulteriormente sostenuta dal fatto che le misure prese in considerazione riguardanti i pregiudizi hanno mostrato una loro propensione all’instabilità e alla transitorietà oltre che una bassa correlazione con misure di differenze individuali. L’accessibilità di un contenuto è influenzata da numerosi fattori, quali la presenza di stereotipi sociali condivisi, l’esposizione mediatica e anche il fenomeno della cosiddetta “saggezza della folla”, quello per cui le conoscenze parziali di ciascun individuo, costituente il gruppo, si aggregano con quelle di altri, dando origine ad una stima, una valutazione più stabile e accurata delle parti che la compongono. Tale stima costituisce la media del livello degli stereotipi culturali e delle iniquità strutturali degli individui facenti parte quel contesto (Payne, Vuletich & Lundberg, 2017).

Pregiudizio socioeconomico​

  La ricerca sul pregiudizio socioeconomico rappresenta un campo multidisciplinare ricco di sfumature e complessità, in cui gli studiosi esplorano le molteplici dimensioni di questo fenomeno sociale.A un livello fondamentale, gli studiosi si interrogano sulle radici profonde del pregiudizio socioeconomico, che affondano nei contesti familiari, nelle dinamiche educative, nelle rappresentazioni culturali e nei sistemi di valori sociali.Questi contesti contribuiscono a plasmare le credenze, gli atteggiamenti e le percezioni riguardanti le persone di diversi strati socioeconomici.Nei contesti familiari, ad esempio, i modelli comportamentali dei genitori e le dinamiche di comunicazione possono veicolare implicitamente o esplicitamente idee e stereotipi riguardanti il successo, il merito e la responsabilità economica.Allo stesso modo, le istituzioni educative, dalle scuole alle università, possono trasmettere messaggi sottili riguardanti le aspettative e le opportunità legate al proprio background socioeconomico, influenzando così il modo in cui gli individui percepiscono se stessi e gli altri.Parallelamente, le rappresentazioni mediatiche giocano un ruolo significativo nel plasmare le percezioni e le credenze collettive riguardanti la povertà, la ricchezza e la mobilità sociale.Attraverso f ilm, programmi televisivi, notizie e pubblicità, vengono diffusi e perpetuati stereotipi che associamo a determinati gruppi socioeconomici, contribuendo così a rafforzare o sfidare il pregiudizio esistente.Una volta interiorizzati, questi stereotipi possono influenzare una vasta gamma di decisioni e interazioni sociali, dalle scelte di lavoro e di istruzione alle dinamiche di interazione sociale e di rete.Nel mondo del lavoro, ad esempio, possono manifestarsi attraverso pratiche di selezione discriminatorie o bias nelle valutazioni delle prestazioni.Nell’ambito della salute, il pregiudizio socioeconomico può tradursi in disparità nell’accesso ai servizi sanitari e nella qualità delle cure ricevute, con conseguenze significative sulla salute e sul benessere delle persone.Le conseguenze del pregiudizio socioeconomico sono profonde e persistenti, contribuendo alla perpetuazione delle disuguaglianze sociali ed economiche.A livello individuale, il pregiudizio può minare l’autostima, la motivazione e il benessere emotivo delle persone, limitando le opportunità di sviluppo personale e professionale.A livello sociale, contribuisce alla stratificazione e alla polarizzazione della società, minando la coesione sociale e l’uguaglianza di opportunità.Tuttavia, la ricerca offre anche speranza, identificando strategie e interventi efficaci per contrastare il pregiudizio socioeconomico e promuovere una maggiore equità e inclusione.Queste possono includere programmi educativi volti a sensibilizzare sulle implicazioni del pregiudizio e a promuovere una cultura dell’accoglienza e dell’inclusione.Politiche pubbliche mirate possono ridurre le disparità di reddito e migliorare l’accesso ai servizi essenziali, mentre interventi sul luogo di lavoro possono promuovere la diversità e l’equità nelle opportunità di carriera.In definitiva, la ricerca sul pregiudizio socioeconomico offre una panoramica approfondita e articolata delle sue origini, manifestazioni e conseguenze, fornendo una base solida per l’azione e l’innovazione nel promuovere una società più giusta, inclusiva e solidale.Per limitare il pregiudizio socioeconomico, dobbiamo agire su molteplici fronti, pArtendo dall’educAzione e dalla sensibilizzazione.È importante promuovere programmi educativi che ci aiutino a comprendere le radici profonde di questo pregiudizio e le sue conseguenze sulla società.Immaginate se nelle scuole, nei luoghi di lavoro e nei media ci fossero più discussioni aperte su queste tematiche.Potremmo costruire una base solida di consapevolezza e comprensione che potrebbe influenzare positivamente le nostre percezioni e le nostre azioni, ma non è sufficiente fermarsi qui.Dobbiamo anche lavorare per promuovere la diversità e l’inclusione in ogni ambito della nostra vita.Questo significa adottare politiche e pratiche che favoriscano un ambiente di lavoro e un’educazione che accolgano e valorizzino le differenze, anziché penalizzarle.Immaginate se ogni azienda, istituzione educativa e organizzazione comunitaria si impegnasse attivamente per creare spazi più equi e inclusivi.Potremmo realmente vedere una trasformazione nella nostra società, in cui ogni individuo è rispettato e valorizzato per ciò che è, indipendentemente dallo sfondo socioeconomico.In breve, limitare il pregiudizio socioeconomico richiede un impegno collettivo per educare, sensibilizzare e promuovere la diversità e l’inclusione.Se lavoriamo insieme per affrontare questo problema, possiamo costruire una società più giusta, equa e inclusiva per tutti.

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